Natura

Una storia che muove dal buio dei tempi, attraversa i secoli e ricomincia ai giorni nostri, in un comune di poche centinaia di anime: Ussita. È lì, nel cuore del Parco Nazionale dei Monti Sibil- lini, che il morso seducente della natura ricominciò a pizzicare sedici anni fa, con il rilascio dei pri- mi otto camosci aviotrasportati. Il contagio, benevolo e travolgente, oggi coinvolge una coloratissima moltitudine di esemplari di camoscio che di anno in anno, con l’introduzione di nuovi esemplari di fauna selvatica, aumenta e si presenta nelle località del par- co come un fiume in piena. A fare da cerimoniere, in quel primo rilascio, fu Franco Mari, responsabile e coordinatore del progetto di reintroduzione del camoscio appenninico, che il 10 settembre 2008 portò all’immissione in natura dei primi esemplari nel territorio del comune di Ussita. Pensate: ci fu in quell’anno un angolo d’Italia in cui, con elicotteri dell’esercito e del Corpo forestale dello Stato, si poterono trasportare dei camosci dall’Abruzzo, dove erano stati catturati, direttamente a Ussita, in un’operazione collettiva che richiese l’impegno di duecentocinquanta persone e la capacità di cooperazione dei vari enti coinvolti. Miracoli del camoscio appenninico, esistito su queste montagne in tempi remoti, che dal giorno del suo rilascio regala possessioni, rimescolamenti e richiama l’attenzione di associazioni ambientaliste e di noti studiosi provenienti da vari paesi europei. Parliamo di un’entità faunistica rara e di un animale a rischio di estinzione, specie prio- ritaria per la Cee e mammifero particolarmente protetto dalla legislazione italiana. Due rilasci già nel 1991 e nel 1992, rispettiva- mente sul Parco Nazionale della Maiella e in quello del Gran Sasso e dei monti della Laga. Un’anti- chità d’eccezione, per migliaia di anni sui monti Sibillini, poi la scomparsa e infine l’ultima fase di un’avventura come non l’avete ancora conosciuta. Forse la più sorprendente. Ma non la sola, vi- ste le inaspettate e meravigliose immagini della sua reintroduzione: un tuffo nel presente di questa antichità d’eccezione. Non potevamo aspettarci che meraviglie, quel venerdì 12 settembre 1992, dalla conferenza stampa presso la sede del Parco nazionale dei Monti Sibillini, durante la quale, con la regia nascosta di Michele Sensini, furono distribuite le immagini dei primi rilasci: un maschio e due femmine. Se esiste una civiltà dell’anima e della natura il camoscio ne fa parte. Presente sul nostro territorio

L’Appennino Agorà
Si ipotizza che fossero presenti sui Sibillini fino al 1500

nell’ultimo periodo del Quater- nario, ieri come oggi l’antichissimo figlio dei Sibillini, testimone e custode del tempo, significa per noi ininterrotta fascinazione. Una miniera mai del tutto esplo- rata riguardante l’ambito genetico, morfologico, paleontologico e comportamentale, dove ogni volta qualcosa viene scoperta e semina stupore. La sua presenza fossile sul monte Argentella, il suo carattere di animale elusivo, dominatore delle praterie, delle nuvole e delle rocce oltre i 1700 metri, il suo essere patrimonio dell’umanità, i caratteri fisici e comportamentali diversi dal ca- moscio delle Alpi, ne fanno una macchina perfetta per la monta- gna, capace di resistere alle con- dizioni ambientali più estreme. Una storia stupefacente per Neumann, il primo degli studio- si che l’ha raccontata, quando nel 1899 al museo di Genova vide un esemplare di camoscio imbalsamato, proveniente dai monti dell’Abruzzo ed esclamò: <<E’ diverso!>>. Diverso, cioè, per colore e disegno dal camo- scio delle Alpi (Rupicapra pyre- naica), tanto che lo stesso Neu- mann lo assegnò a una nuova specie a sé stante e ben differenziata: Rupicapra ornata. Poi noi, indagatori instancabili, che tutto crediamo di sapere intorno al nostro territorio e alle vicende passate, noi che ascoltammo le parole di Franco Mari nel 2008, dopo la conferenza stampa sfo- gliammo quella storia e ci accor- gemmo di essere ignoranti: capimmo, per esempio, perché in un vecchio ma prezioso libro di scienze – Storia illustrata del regno animale, Torino 1898 – non si parla del camoscio appenninico. E’ indubbio che i nostri monti, se paragonati a un passa- to remoto di migliaia di anni fa, abbiano subito enormi cambia- menti, dovuti a molteplici fatto- ri. E’ indubbio anche che uno studio d’idoneità ambientale, per accertare la possibilità d’in- troduzione di una nuova specie animale, andava finalmente fat- ta. Pertanto, la verifica dei para- metri ambientali, l’assenza di barriere ecologiche, la possibilità di utilizzo di tutta la parte inter- na e in quota del comprensorio dei Sibillini e la mancanza di barriere ecologiche, costituirono l’ossatura, il sostegno, il punto di partenza e di arrivo del progetto di reintroduzione del camoscio appenninico; è come se il Parco Nazionale dei Sibillini avesse costruito una massa orchestrale di obiettivi per separarli e riunirli, alla maniera di un corteggiamento amoroso rinnovato, rilascio dopo rilascio, in un’operazione

che andò avanti per tutto il mese di settembre 2008. Dopo anni di straordinarie sperimentazioni nell’ambito del progetto “Life natura 2002”, fu realizzata l’area faunistica di Bolognola, con il rilascio nel 2006 della prima coppia di camosci appenninici, proveniente dall’area faunistica di Lama dei Peligni. La scelta dell’anno 2008 cadde su Ussita, per riportare il camoscio nel suo ambiente più tradizionale e na- turalmente non ci poteva essere scelta migliore. Franco Mari era uno che sapeva osservare gli ambienti naturalistici e passò mesi e mesi sui Sibillini per congegnare quella prima giornata piena di

partecipazioni e di passioni. Lui stesso, come contraltare, scelse o quanto meno trovò, Alfredo Fer- manelli, direttore del parco dei Sibillini, alter ego che portò già nella conferenza stampa, una sorta di entusiasmo e di istintiva lucidità intuitiva sulle prospetti- ve future di questa operazione, con previsioni culminanti nell’attrattiva turistica e nella presenza, trascorsi dieci anni, di grossi nuclei di camosci appenninici. Fermanelli guidò poi le operazioni nella prima giornata dei rilasci: cinque ore sotto il sole cocente, le casse prelevate dagli elicotteri e portate in alto verso le pareti rocciose, la linea di operatori che aveva il compito di indirizzare i camosci verso le zone pietrose circostanti. Bel dualismo: Mari era cristallino, disarmante nel suo fervore positivo, nella sua convinzione che dalle radici di quest’operazione potes- se nascere, come una musica, una nuova popolazione di camosci appenninici e perché no, un parco migliore. Fermanelli era l’opposto in apparenza: ottimista, ma meticoloso quando diceva che, nell’assicurare a tutti la possibilità di vedere i camosci, diventava indispensabile controllare un corretto afflusso turistico, col ricorso a guide specifiche e al numero contingentato di visitatori. Compassato e visibil- mente soddisfatto, appariva in- vece il presidente Marcaccio che, come si suol dire, giocò con l’or- chestra, affermando che il vero cambiamento prodotto da que- sto progetto era lo sviluppo socio economico del territorio, reso possibile dall’accresciuto afflusso turistico di visitatori italiani e stranieri, che volevano godere del paesaggio e della vista dei grandi animali selvatici. La dot- toressa Penzo, del corpo forestale dello Stato, arrivata con grazia femminile a rappresentare il Co- ordinamento territoriale per l’ambiente, insistette con vigore sulla delicatezza e l’importanza dell’operazione richiedendo, nell’area del rilascio, la massima tranquillità, l’attenzione degli escursionisti, ma anche un’attenta vigilanza da parte degli agenti del Corpo forestale dello Stato. Infine Bruno Falconetti, vicesindaco di Ussita, portò nell’impresa la sua convinta praticità am- ministrativa: il camoscio recava acqua al mulino del turismo. Uno dei miracoli preannunciati dalla conferenza stampa, è di una semplicità disarmante. Grazie ai rilasci di grossi animali selvatici, ogni anno si produce qualcosa di nuovo, si produce soprattutto cultura, con quel “gioco” dina- mico del recupero e dell’innovazione, che è esattamente quello che le istituzioni italiane, in ge- nere stentano a fare. Un conto è gestire quello che già c’è, ben altro è mettere in moto meccani- smi che generano cultura. Se questo è l’effetto del camoscio appenninico, auguriamoci allora che si diffonda ovunque. Diecimila anni fa questo mammifero uscì dalla scena dei monti Sibillini, ma non dalla storia. Una storia interrotta, quindi, che quel mercoledì 12 settembre 2008 ri- prese il suo corso, destinato – ce lo auguriamo – a durare a lungo, anzi a non estinguersi mai.

Valerio Franconi

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